Fotografia terapeutica
Jo Spence e la nascita della fotografia terapeutica.
Com’è nata la fotografia terapeutica? Si può dire che tutto è cominciato con Jo Spence, fotografa britannica dal carattere indomito.
Nata da genitori proletari, Jo non si può dire che abbia avuto una vita facile, tantomeno agiata, ma era una donna grintosa e combattiva, che
amava circondarsi di persone con cui collaborare e creare. Mi dispiace un po’ non averla incontrata, sai?
Laureata al Politecnico di Londra cominciò a fotografare come assistente in uno studio che si occupava di fotografia commerciale, poi fece esperienza anche presso un giornale locale finchè non riuscì ad aprire il suo studio. Si dedicava prevalentemente al ritratto e alla fotografia documentale.
Tutto ebbe inizio nel 1979, quando cominciò a creare una rielaborazione del suo album familiare. Il progetto prese il nome di “Beyond the Family Album”.
(Sto parlando di fotografia terapeutica e non di fototerapia, le due cose sono differenti. Definisco meglio il concetto di fotografia terapeutica in questo articolo.)
Jo Spence scrisse: “Come fotografa, ho trascorso la maggior parte della mia vita lavorativa rappresentando visivamente altre persone. Come assistente di studio, nell’esercizio della mia professione, ho interpretato le istruzioni di clienti e capi; come fotografa per un giornale locale, imparai ad obbedire agli ordini creando le foto che piacevano all’editore; come ritrattista diedi alle persone la visione di se stessi che volevano vedere.
Quando ebbi compiuto 40 anni, mentre lavoravo come fotografo documentarista freelance e mi stavo politicizzando, cominciai ad avere seri dubbi sul mio diritto di continuare con il mio lavoro, per agire per conto di coloro che ho fotografato, i quali non avevano alcun controllo su quello che facevo con le immagini o non sapevano dire che parole avremmo associato alle loro immagini. Per questo motivo, alla fine smisi di essere fotografa.”
Hai capito bene, ad un certo punto Jo Spence butta tutto alle ortiche, puoi torna alla carica.
Con “Beyond the Family Album” iniziò la sua autoindagine e buttò le basi per quella che oggi chiamiamo la Fotografia terapeutica. “Cominciai a pensare a come ero stata fotografata dagli altri…” guardando le foto che le erano state scattate da piccola da genitori, amici e parenti “…e finì con il prendere il controllo su come volevo essere fotografata”.
Colección MACBA. Fundación MACBA
A quel tempo la fotografia non era più un oggetto di prestigio come nei primi
del ‘900, tuttavia creare il proprio studio e portare avanti l’attività non era alla
portata di tutti, di fatti Jo Spence continuò a lavorare come impiegata per
gran parte della sua vita. Tuttavia l’album di famiglia era un oggetto già alla
portata di molte famiglie e la Polaroid® stava prendendo campo. Questo per
darti un’idea del periodo storico.
Jo Spence potrebbe essere tranquillamente mia nonna, ma con lei ha
davvero poco in comune. Forse la situazione economica del dopoguerra non
era la stessa in Italia e Inghilterra, tuttavia l’Europa era nel pieno della guerra
fredda e dei fermenti di liberazione del ’68… e del femminismo! Mia nonna
non era una femminista, ma mio nonno aveva già imparato a rispettare la sua
autonomia.
Ma tornando all’album familiare: Jo Spence si era accorta che mancavano dei “pezzi”. Ed è proprio qui che risiede il grande lavoro della fotografa. Per prima cosa cominciò a rielaborare le varie fasi della sua vita, raggruppando le foto per anni. Poi si rese
conto che, al di là delle foto delle cerimonie, ricorrenze, compleanni e vacanze… non c’era nulla. Di fatti quell’album non rispecchiava la veridicità della vita di Jo Spence, era solo
un’immagine fittizia di ciò che lei e la sua famiglia volevano rappresentare. Un’ideale di felicità, stabilità e armonia che non esiste da nessuna parte.
Passò dall’altro lato della fotocamera quindi, e cominciò a fotografarsi in tutte quelle situazioni “mancanti”. Nacque “Remodeling Photo History”.
Seguendo lo stesso filone dell’album familiare, dopo lo shock causatole dalla diagnosi del cancro al seno, Spence decise di documentare il trattamento alternativo a cui si sottomise, creando una nuova serie “The Picture of health”.
Quando le fu diagnosticato il cancro Spence racconta: “Mi resi conto con orrore che il mio corpo non era fatto di
carta fotografica, né era un’immagine, o un’idea, o una struttura psichica… era fatta di sangue, ossa e tessuti.
Alcuni di loro ora sembravano cancerosi. E io non sapevo nemmeno dove si trovasse il mio fegato!”
La fotografa britannica trovò nella fotografia il modo di esprimere i propri sentimenti e di trasformare la
sensazione di abbandono e solitudine che l’ospedale (e le terapie convenzionali che le venivano proposte) le lasciava.
Più tardi, nel 1984, cominciò a collaborare con la collega Rosy Martin alla Phototheraphy. Mettendo in gioco le tecniche di co-counseling, dello psicodramma e della PNL, insieme creavano nuovi ritratti e nuove forme di rappresentazione. La fotografia diventava così uno strumento terapeutico basato sulla collaborazione, dove il soggetto poteva controllare la propria immagine rappresentando sentimenti e traumi inespressi.
“La maggior parte del mio lavoro è totalmente privato, ma di tanto in tanto…riesco a sentirmi abbastanza al sicuro da condividerlo con gli altri. Così il lavoro passa dall’essere parte di un processo in corso (lo scatto di fotografie), a una serie di dialoghi interiori e trasformazioni dopo aver rivisto le immagini, per diventare finalmente un potenziale materiale grezzo per il pubblico. In Libido Uprising (che fa parte del mio lavoro in corso sulla relazione madre e figlia) ho cercato di mettere in scena metafore interiori sul mio conflitto tra il domestico e l’erotico, tra l’immagine della mia non-sexy madre e quella parte di me che sta ancora nascendo…”
Qualche anno dopo aver vinto il tumore al seno le diagnosticarono la leucemia. Jo Spence capì che non c’era più molto da fare, creò la sua ultima serie: “The final project”. Alla fine cambiò quasi stile, utilizzò vecchi ritratti per sovrapporli a materiali vecchi e consumati dal tempo.
“Come si rappresenta la leucemia? Non so, come? E’ impossibilità.”
Cosi la fotografa si avvicinò a quelle culture che tengono l’idea della morte al proprio fianco, Egiziani e Messicani per esempio, che utilizzano le maschere e le bambole come accompagnamento nell’aldilà.
Per molti artisti la fotografia (e l’arte in genere) è un mezzo per sublimare il dolore, trasformarlo, renderlo qualcosa di differente. L’arte rende possibile l’avvicinamento ai traumi e al subconscio, permettendo non solo di scendere a patti con esso, ma anche trasformarlo in qualcosa di nuovo, proprio perchè magari lo si riesce a vedere da un nuovo angolo. Jo Spence lo ha fatto in maniera palese, molto più di altri forse, spiegando e insegnando ciò che stava facendo per se stessa e aprendo la porta a un nuovo utilizzo della
fotografia.
Bibliografia
https://www.theguardian.com/artanddesign/2012/jul/19/artist-of-week-199-
jo-spence
https://www.studiovoltaire.org/whats-on/jo-spence-work-part-i-ii/
https://www.macba.cat/es/arte-artistas/artistas/a-z/spence-jo
https://davidcampany.com/jo-spence-the-final-project/
https://elephant.art/jo-spence-brave-self-portraits-taught-me-the-brutaltaboos-
of-womanhood-hettie-judah-14042020/
https://en.wikipedia.org/wiki/Photo_album
https://slate.com/human-interest/2015/09/history-of-photo-albumsbeautifully-illustrated-victorian-photo-album.html
https://www.rrbphotobooks.com/products/jo-spence-fairy-tales-andphotography-
or-another-look-at-cinderella
https://elephant.art/is-photography-an-effective-form-of-therapy-jospence-
14102020/
https://davidcampany.com/jo-spence-the-final-project/